Tra Gestalt e Analisi Transazionale: considerazioni sul contatto. Teoria e prassi.

contatto igat scuola psicoterapia analisi gatto cat

Tra Gestalt e Analisi Transazionale: considerazioni sul contatto. Teoria e prassi.

Pubblicato in: Quaderni di Gestalt, Anno V, n. 8-9, 1989.

 

“Nel contatto profondo esperienza e sperimentatore costituiscono un tutt’uno. Il bambino per effetto dei fattori ambientali che si incontrano con la sua vulnerabilità, limita i propri confini e si costituisce un copione di vita”.

 

L’importanza del contatto

La terapia può essere focalizzata sulle ripristino corretto del contatto con esperimenti di Gestalt-meditazione o sull’approfondimento dei contenuti con tecniche di ridecisione e reintegrazione.
Mostri, incubi, streghe, nascondono parti alienate del sè e spesso sono condensati di esperienze i cui elementi costitutivi vanno separati e riassimilati.

L’esperienza di ogni individuo avviene sulla linea di confine che delimita il suo Io e sulla zona di confine è possibile il contatto. Ogni persona, cioè, si riserva uno spazio entro il quale si muove con sicurezza, determinato dalle sue esperienze individuali.
La tendenza naturale è quella di evitare il rischio e quindi il contatto con tutto ciò che realmente, o per effetto di “fobia”, appare minaccioso. A questa tendenza corrisponde l’altra polarità di contatto: il ritiro. L’ampiezza dell’esperienza dipende dall’elasticità dei confini e dalla capacità della persona di espanderli.
I fenomeni che si verificano sulla linea di separazione tra l’interno e l’esterno, tra sé e l’altro, possono essere di due ordini. Da un lato la perdita del confine che porta ad una confluenza simbiotica caratterizzata da eccessivo attaccamento alle persone e alle cose, nonché da uno stato confusionale che non permette più di distinguere, come separati, gli elementi che costituiscono l’esperienza. D’altro lato l’eccessiva rigidità del confine comporta una netta separazione tra sé e l’altro, fino all’isolamento di chi evita ogni forma di contatto, per timore di perdersi in qualche tipo di coinvolgimento che non potrebbe controllare.

 

L’individualità nel contatto

La difficoltà è di mantenere nel contatto la propria individualità, permettendo che i poli dell’incontro restino due, come avviene nel caso di un rapporto intimo, durante il quale è possibile vivere momenti di fusione, con piena delimitazione dei propri confini.
Tuttavia finché ci muoviamo nell’ambivalenza di scegliere l’una o l’altra polarità, percorriamo strade intermedie che ci avvicinano al contatto, ma non ci permettono di viverlo pienamente, finché non superiamo la conflittualità di base che proviene da un coatto perseguimento del piacere e dall’evitamento del dolore. Sia nel caso che l’esperienza avvenga al proprio interno, sia che si manifesti nel rapporto con ciò che è fuori, un contatto profondo viene idealmente raggiunto quando si può superare la “scissione duale” tra lo sperimentatore e l’esperienza, (Dhiravamsa, 1982), che detto in altri termini comporta l’essere pienamente presenti nell’esperienza che si sta vivendo.

Questa è la meta di molti insegnamenti spirituali e pratiche di meditazione che tendono alla integrazione. Integrare vuol dire entrare in contatto consapevole con l’esperienza, nel momento in cui si verifica. Il contatto è elemento essenziale della consapevolezza, che altrimenti resterebbe pura comprensione intellettuale. Capire quale sia il proprio bisogno di per sé non è sufficiente per produrre consapevolezza: è necessario il contatto con l’oggetto del “bisogno”. Per dirla con Perls: “lo spettatore di un’opera di pittura moderna può credere di essere in contatto col quadro mentre realmente è in contatto col critico d’arte del suo giornale preferito” (1951). È distratto dall’esperienza che sta vivendo e mette tra se è l’opera d’arte l’influenza di un giudizio. Non si permette la conoscenza “intuitiva” del quadro che sta guardando.

L’altro elemento che caratterizza un contatto profondo, oltre alla consapevolezza, è “ ‘essere nel presente”. Vivere nel “qui ed ora” significa riconoscere come unico tempo quello attuale: il passato non c’è più e il futuro è soltanto possibile. Il rimanere legato a ciò che stato e l’ansia per quello che sarà, impediscono di vivere con pienezza l’esperienza del momento.

“Discipline spirituali più vecchia della terapia hanno insegnato a presentificare il passato o il futuro e molte forme di meditazione praticano l’attenzione al ‘ qui ed ora’” (Naranjo, 1970).

 

Ripristinare il contatto perduto

Lo scopo della terapia della Gestalt è di ripristinare il contatto perduto eliminando la separazione tra gli aspetti scissi della personalità. La scissione base è quella di separare se stesso dalla propria esperienza, fino a divenire osservatore di ciò che si sperimenta. La mente imprigiona con i suoi giudizi, modelli e ideali, allontana dal bisogno reale e conduce all’impasse.
In fondo la nevrosi deriva proprio dalla mancanza di contatto come l’esperienza che si sta vivendo. Quando l’individuo si immerge nel “ qui ed ora” non c’è spazio per l’impasse.

Non ci sono approvazione e disapprovazione provenienti dal passato già vissuto o dal futuro paventato, “quasi una fantasia allucinatoria che non permette di vivere la realtà del momento” (Ferrara, 1989).
La teoria del contatto è in linea con un altro aspetto fondamentale della terapia della Gestalt: l’attenzione al processo, piuttosto che agli elementi costitutivi del fenomeno. Nella processualità c’è trasformazione ed entrare nel processo in senso più ampio vuol dire uscire dal ciclo della nascita e della morte, secondo la tradizione buddista.

I contatti che Perls ha avuto con il buddismo zen, raccontati a volte ironicamente (1969), in un qualche modo devono aver confermato e favorito lo sviluppo delle sue intuizioni.
Infatti, il “continuo di consapevolezza” ha le stesse caratteristiche di una pratica di meditazione e Perls lo considerava esercizio validissimo per la terapia, in moltissimi casi (1977).
Un importante contributo alle pratiche atte a ristabilire in maniera diretta il contatto perduto, è stato dato da Claudio Naranjo, che ha sviluppato la Gestalt-meditazione di nei suoi due aspetti del contatto con sé e del contatto con l’altro, quest’ultimo realizzato attraverso esperimenti di “meditazione con parole” (1970) praticati nella relazione Io-Tu.

Accanto all’aspetto meditativo, quello che ha reso sicuramente più nota la terapia della gestalt, è la modalità di ripristino del contatto attraverso la reidentificazione drammatizzata con le parti alienate del sé e l’elaborazione degli aspetti conflittuali della personalità fino a portare, attraverso l’accordo, all’integrazione delle parti scisse.
Ma il ritmo della vita è centrato sulla polarità contatto-ritiro (Perls, 1969), sicché diventa importante occuparsi anche di questo secondo aspetto: di come il contatto s’ interrompe e di come il bambino impara a ritirarsi.

 

L’interruzione del contatto

C’è un’età magica della vita di un bambino, quella che la Mahler (1978) definisce “sottofase di sperimentazione”. Il bambino contatta con pienezza il mondo che vuole conoscere ed esplorare, incurante dei rischi. La vista di un fiore può suscitare in lui un’espressione di meraviglia, piena di coinvolgimento. Gode del solo guardarlo. Successivamente imparerà il nome di quel fiore, il suo colore, forse la stagione in cui cresce. L’esperienza eidetica di quel primo contatto si impoverisce. Subentrano i modelli, i concetti e le categorie, entro le quali sarà educato a incasellare le esperienze. Il rischio è che non guarderà più quel fiore ma le sue caratteristiche botaniche.
D’altra parte è necessaria la consapevolezza dell’esperienza e questa si svilupperà nel corso dell’evoluzione, mentre la capacità di contatto, Inizialmente così elevata, potrà soltanto ridursi. Ciò avviene non solo in dipendenza dell’influsso ambientale, ma anche nel modo tutto personale che ha il bambino di gestire le naturali frustrazioni, insite nello sperimentare la vita.

 

Dinamica dell’interruzione del contatto

Il bambino venendo al mondo è potenzialmente libero, ma presto si rende conto a sue spese e non è vero (Berne, 1979).
Il piccolo “ eroe” sembra non avere limiti durante le sue esplorazioni, che affronta con coraggio e determinazione. Ma presto capisce che è dipendente da altri più grandi e potenti di lui. D’altra parte si confronta con le sue forze e capacità reali che gli rimandano la frustrazione di non essere “onnipotente”. Questo “ nano” caduto in una terra di “ giganti” comincia a scoprire gli “orchi e le streghe”.
Dipende dall’esterno per la sua stessa sopravvivenza. Ha due bisogni fondamentali, vivere ed evolversi (Perls, 1977), dai quali derivano tutti gli altri, quelli di ordine fisiologico, legati al sopravvivere, e quelli più strettamente psicologici, legati allo sviluppo e alla crescita.
Tra questi ultimi va incluso, come bisogno, il superamento delle tappe evolutive. Diversi elementi parteciperanno a determinare il futuro di quel bambino, l’ambiente portatore di messaggi, i suoi bisogni e la sua vulnerabilità, derivante dal fatto che non ha ancora una capacità di comprensione adeguata ai fenomeni che vive, né forza reattiva alle esperienze che gli vengono imposte (Woollams – Brown, 1985).
Inizialmente il bambino ha una sola tensione: esplorare l’ambiente per conoscerlo e distinguersi da esso. In seguito comincia a discernere gli oggetti che gli sono necessari e quelli che sono pericolosi. Apprendere il ritmo del contatto-ritiro per definire i confini del suo Io e organizzare il “ copione di vita” al quale si adeguerà da adulto.
Nei primi anni riceve messaggi che sotto varia forma gli vengono inviati dai genitori e da quanti si prendono cura della sua crescita ed educazione. Se il messaggio permette la soddisfazione del “bisogno” e il superamento delle tappe evolutive, favorisce il contatto: è un” permesso” e come tale tende allo sviluppo psicofisico e quindi può essere assimilato.
Ogni volta che il bambino riceve un “permesso” il ciclo di contatto può essere completato. Quando invece il messaggio è limitante o, detto in altri termini, è un “ un messaggio di copione”, il bambino si ritira dall’oggetto del bisogno. L’esperienza viene interrotta. Se l’interruzione è determinata da un evento altamente traumatico, o ripetuto più volte del tempo, produce una mancanza, un “buco” nella personalità.

Questa Gestalt aperta continuerà a richiamare attenzione finché non sarà completata. L’organismo non può fare a meno delle sue parti e delle sue funzioni: parti e funzioni che abbiamo proiettato e delle quali ci siamo depauperati. “Abbiamo disconosciuto, allenato certe parti di noi stessi e le abbiamo messe nel mondo fuori di noi, piuttosto che averle disponibili come nostro potenziale” (Perls, 1970).
Viviamo scissi e frantumati per effetto di una proiezione generalizzata, e finiamo per ritenere il mondo responsabile della nostra “castrazione”. Gli stessi Buddha, Cristo, il cielo e l’inferno, possono diventare proiezioni create da noi (Zinker, 1977), a sostegno della nostra “ mancanza di essere”.

 

Le prime interruzioni di contatto

Le prime e più gravi interruzioni riguardano la vita stessa del bambino e quindi il primo fondamentale permesso sarà quello di “esistere”. Lo riceverà attraverso il soddisfacimento dei bisogni di nutrimento e calore, sia fisico che emotivo, necessari per la sua sopravvivenza.
I messaggi di copione assumono la forma di divieti, del tipo: “non fare… non piangere, non correre, non disturbare…” o di ordini del tipo: “devi essere buono, devi obbedire, devi comportarti bene, devi essere gentile…”, oppure arrivano al bambino sotto forma di esempi e modelli: il padre che lavora tutto il giorno, i litigi in famiglia, la madre vittima, le reazioni di impotenza di fronte alle difficoltà…
Ognuno di questi messaggi, se non congruente con le necessità organiche, piuttosto che essere assimilato, verrà introiettato e quindi non sarà mai integrato nella personalità.
Di fronte alle stimolazioni ambientali il bambino non è passivo. Opera delle scelte, certo condizionate dalla forza degli eventi esterni, ma del tutto personali, e costituisce il suo unico e individuale adattamento all’esistenza. Ha capacità logiche limitate, e possiede un pensiero magico, concreto, intuitivo, ha un enorme potenziale creativo e una fervida fantasia. C’è in lui un “Piccolo Professore”, come lo chiama E. Berne, che si dà spiegazioni sulle esperienze che vive e le interpreta, con procedimenti che possiamo soltanto immaginare ma difficilmente conoscere.
Quando i messaggi provenienti dall’esterno sono in conflitto con i bisogni del bambino, questi si trova in un impasse.

Da una parte è completamente dipendente dall’affetto dei genitori: perdere il loro amore compromette la sua sopravvivenza, d’altra parte l’angoscia per la frustrazione è molto elevata. Interviene allora il “Piccolo Professore”, il piccolo adulto, che si dà una spiegazione adeguata alle sue limitate capacità cognitive e “cognitivamente” chiude la Gestalt aperta, cioè il bisogno che richiama soddisfazione. In questo modo abbassa il livello di ansia (Holtby, 1976). Il processo descritto porta a delle “convinzioni” su se stesso e la vita che condizioneranno le soluzioni di adattamento per sopravvivere. Prenderà cioè delle “decisioni operative” che determineranno le linee generali sulle quali sarà improntata la sua esistenza (Erskine, 1980).

 

La costruzione dell’immagine di sé

Alienato il contatto con i suoi bisogni, il bambino si crea un mondo illusorio che da una parte costituisce una difesa alla intollerabile angoscia proveniente dalla frustrazione, d’altra parte diventa uno strumento di evitamento del contatto con la realtà.

Si costruisce un’immagine di sé, si impone una modalità di essere, incomincia giocare un ruolo che lo renda più accettabile.
Il bambino non può tollerare il senso di vuoto e l’unità che sperimenta con il rischio della perdita della separazione dai genitori: opporsi a papà e mamma, farli dispiacere, significa perdere il loro amore, dal quale è totalmente dipendente. Il messaggio implicito che riceve dai genitori sembra che il tipo: “se fai come ti dico ti amerò e ti proteggerò. senza di noi non puoi neanche esistere. Sei come nulla.” Quello che capisce il bambino è che non ha diritto al suo modo di essere e quindi inventa una bugia per sopravvivere alla profonda angoscia relativa alla propria impotenza. Quando la scissione diventa particolarmente grave, il piccolo “nano” si inventa di essere un gigante ancora più grande e potente di quelli che popolano il suo mondo. Sì immagina speciale, diventa grandioso, allucina onnipotenza.
Il piccolo “narciso” toglie da sé il rischio di vivere e sogna una libertà e diventa un mito, perché lui stesso l’ha imprigionata scegliendo la sicurezza della fantasia al posto dell’avventura del reale.
Il paradiso simbiotico prevale sul rischio della separazione (Polster, 1986).

Il discorso portato avanti con qui e coerente con la tesi di F. Perls secondo la quale in terapia va messa l’attenzione sul fatto che “ non è attivo ciò che è stato”, come sembra concludere Freud, ma al contrario “ è attivo proprio ciò che non è stato” (1977). Quello che è stato è un affare compiuto. La situazione incompiuta nel passato, invece, vive ancora nel presente e chiede completamento. Questi concetti sono pienamente applicabili alla teoria berniana del copione. Chi si autolimita sta rispondendo alla domanda “Cosa non posso fare”, e ciò che si chiede il terapeuta è “Cosa è mancato a questa persona” (Ferrara, 1989).

 

Distacco e repressione del dolore

Quello che la paziente C. “non poteva fare”, era di avere un dialogo soddisfacente con il proprio compagno. Litigavano spesso e a volte lui la picchiava. Quello “che era mancato” risultò da una scena della sua infanzia. Rivivendola nel “qui ed ora” entrò in contatto con il bisogno di affetto da parte del padre: “Voglio che mi prendi in braccio, che mi accarezzi, che mi dici che mi vuoi bene”. Al contrario, il padre la picchia perché ha rotto un “vassoio”. Diventa violento ogni volta che la moglie gli riferisce le marachelle dei figli. Lei impara a reprimere il dolore e la voglia di ribellarsi e prende una “decisione limitante”. “Non avrò più bisogno di te” riferito al padre, “non avrò più bisogno di nessuno, nessuno si accorgerà del male che mi fa”. Metterà una maschera di “noncuranza” e di provocante indifferenza, conserverà da grande la convinzione che con gli uomini “non c’è niente da fare” e oggi sceglie compagni che la aiutano a confermarsi nella sua idea. Così, con una sorta di automatismo, continua ad impedirsi di ottenere ciò che veramente vuole, e i suoi bisogni continuano a reclamare soddisfazione senza risultato, mentre l’atteggiamento passivo-aggressivo le procura ancora botte. In quella seduta di terapia, dopo aver rivissuto le emozioni represse dietro l’apparente indifferenza, potette contattare nuove possibilità ed espresse il suo desiderio di essere amata e di smettere la maschera della noncuranza, “ non è vero che sono forte, ho bisogno di amore, che mi si parli con dolcezza, non mi nasconderò ancora, lo dirò, lo chiederò, non voglio più avere paura di te”, riferendosi al compagno.

In un altro caso, quello che “non può fare” la paziente F. è di uscire dall’isolamento nel quale vive. In un lavoro condotto con tecnica regressiva, di tipo ridecisionale, entra in contatto con il suo dolore per l’atteggiamento distaccato dei genitori che nella scena drammatizzata vede “distratti”, mentre conversano con amici in un posto di villeggiatura. Lei, piccolina, gioca sola e trascurata, finché non sceglie di fare “i capricci”, perché i genitori si accorgano che “esiste”. Il desiderio di essere considerata coincide con un bisogno di “ riavvicinamento” tipico della sua età: nella scena immagina di avere poco meno di due anni. Questa è la sottofase evolutiva durante la quale possono attivarsi disturbi narcisistici qualora il bisogno di riavvicinamento venga impedito (Thomson, 1983). Picchiando sul cuscino comincio ad urlare ai genitori: “ho diritto che vi occupiate di me, ho diritto alla vostra attenzione”, ed entrò in contatto con il suo dolore.

F. aveva Imparato che per avere attenzione doveva fare i capricci, è così aveva represso i sentimenti naturali. Quando infine di scoprì il suo bisogno, disse: “non faccio i capricci per niente… non sono cattiva… voglio che vi accorgiate di me… non sono un’estranea, non mi piace stare sola…. voglio che giochiate con me… parlate con me…” La voce si strozza, la tristezza e il dolore prevalgono sulla rabbia. Tende a riflettere e chiudersi nuovamente: prova “un senso di chiusura alla gola”. Dopo ulteriore elaborazione, alla domanda su come può usare diversamente quell’energia, immagina di uscire dal suo isolamento, e andare verso i genitori, ed invitarli a fare un giro tondo, “voglio prendervi per mano… e voglio… giocare, voglio fare un giro tondo con voi”. È ancora addolorata, piange, ma nel pianto c’è anche un sorriso e un po’ di calore. È pronta a uscire dal suo isolamento e a chiedere ai compagni di gruppo, attraverso un’esperienza di contatto, nella relazione io-tu, l’attenzione di cui ha bisogno e a condividere il suo desiderio “far parte”.

Al di là di numerosi spunti teorici che l’esempio offre, attraverso la sintesi riportata ho voluto mostrare la possibilità di un lavoro più puntuale, ottenuto focalizzando l’attenzione su specifiche aree di interruzione del contatto, nel caso citato, relative ad una fase evolutiva.
Il recupero dell’aspetto alienato della personalità, si può ottenere ricostruendo con diverse modalità tecniche, la scena simbolica durante la quale è stato impedito il bisogno che ancora oggi resta insoddisfatto. Rivivendo l’esperienza nel “qui ed ora” si ripristina il flusso di consapevolezza e viene ristabilito il contatto con le emozioni, le sensazioni fisiche e i pensieri repressi. Riportando energia in questi strati “ morti” della personalità, il livello implosivo può diventare esplosivo e “l’eccitazione”, superando l’impasse, riprende il suo flusso biologico. La persona può “ ridecidere” sulle sue autolimitazioni e aprirsi a nuove esperienze più e adeguate alla realtà attuale.

 

L’ingiunzione morale

La terapia della Gestalt ha una profonda attitudine realistica e anti-ideale. Non ci sono aspetti positivi o negativi della personalità. Le parole “buono o cattivo sono sospette in Gestalt” (Naranjo, 1970). Se ci sono fatti da eliminare vuol dire che sono estranee. Questo atteggiamento tende a deresponsabilizzare l’individuo. Niente è “buono” o “cattivo” in sé. Dividere l’esperienza tra le due polarità indicate, proviene da ingiunzioni morali che tendono al perseguimento di un modello ideale di vita (Naranjo, 1970). Ma questa è la trappola del dover essere in opposizione all’essere. Quanto più perseguo l’ideale, tanto più mi allontano dal reale e aumenta la scissione tra l’oggetto desiderato e quello rifiutato. Non c’è niente da accettare e niente da rifiutare, è la consapevolezza e non la morale la guida all’autoregolazione organismica (Ferrara, 1989). Perls, ricordava che originariamente l’uomo si è affidato alle divinità, poi ha scoperto le cause della natura e quindi è arrivato al processo. Un giorno, auspicava, “scopriremo che la consapevolezza è la proprietà dell’universo” (1970).
Ne consegue che le parti rifiutate, le immagini terrifiche, i mostri e le streghe che popolano i sogni e le fantasie, così come ogni altra forma minacciosa, in qualsiasi modo si presentino, piuttosto che combattuti, come alcuni orientamenti teorici suggeriscono (Steiner, 1979), vanno riassimilati alla personalità. Spesso contengono aspetti di tali e permettono di accedere a nuclei profondi del copione. “Sono adattamenti, e quindi sistemi difensivi, e come tali contengono gli aspetti sani della personalità, che di fronte alla frustrazione e al pericolo hanno scelto la sopravvivenza. L’energia non utilizzata nell’ambiente è stata retroflessa, ma è ancora disponibile se saprò trattare la difesa come aspetto creativo della personalità (Ferrara, 1989).

 

Il genitore autogenerato

Un giovane paziente viveva nell’incubo creato dal delirio paranoico di persecutori nascosti che lo seguivano per ucciderlo. Identificatosi nel ruolo “dell’immaginario assassino”, che il paziente viveva come estranea da sé e quindi da considerare come aspetto allenato della personalità, da poter reintegrare, espresse rabbia violenta e voglia di vendicarsi dei genitori assenti, dai quali non aveva ricevuto “le calde cure” di cui aveva bisogno. Esaurito lo sfogo rabbioso, entrò in contatto con un aspetto di sé estremamente fragile e spaurito: un bambino che chiedeva carezze, protezione e calore. Nel delirio persecutorio aveva condensato insieme l’ingiunzione genitoriale, sotto forma di messaggi del tipo “non siamo disponibili per te”, il bisogno di cure e protezione e il sentimento represso di rabbia che non aveva potuto agire. In pratica la Gestalt aperta è il bisogno di cure e la mancata chiusura, oggi, nella vita di un adulto, viene ancora sostenuta dall’immagine persecutoria, “l’assassino”, che lo riempie di paura e lo trattiene vicino alla madre. Ma da lei non può ottenere più la soddisfazione del bisogno di “cure” e d’altra parte non la può lasciare, perché intrappolato nella sua antica carenza. Nel lavoro con questo paziente è stata usata una modalità tecnica rivolta a separare i diversi stimoli che hanno partecipato a formare il “persecutore autogenerato”, considerato come un “adattamento complesso”. L’Adulto osservante si rende conto del paradosso che sta vivendo. All’interpretazione in termini fantastici della realtà, può sostituire un più proficuo esame delle nuove alternative possibili, sulle quali dirigere la propria energia, fino ad ora retroflessa nella “deviazione violenta” rappresentata dai “persecutori”.

 

Riconfermarsi nell’adattamento

In un altro caso, nella fantasia di una paziente, l’immagine di una strega “brutta e cattiva” era messa a guardia della sua incolumità e della possibile ribellione del Bambino interiore. Facendole paura e impedendole di uscire dal “guscio caldo e protetto”, le evitava di correre rischi. Di fatto la strega rappresentava “l’idealizzazione” dei messaggi di genitori iperprotettivi e poco fiduciosi in se stessi, che coprivano la propria fobia per la vita proiettandola sulla figlia, alla quale attribuivano l’essere debole e incapace. “Meno male che ci sono io altrimenti si mette nei pasticci” e “devo esserci io… altrimenti fa sciocchezze”, continuavano a ripetere rispettivamente il padre e la madre “reali”. La paziente aveva trasformato questi messaggi in un genitore interno, frutto di pensiero magico e intuitivo, rappresentato dalla strega, che fin da quando era piccola compariva nei suoi sogni e fantasie, con il compito preciso di mantenerla in uno stato di soggezione e dipendenza, alimentato attraverso la paura e la minaccia. Per confermarsi che non può uscire dal suo “adattamento passivo”, che deve starsene “calda e rincantucciata” all’ombra dei “buoni genitori protettivi”, ogni volta che si coinvolge in un rapporto affettivo, che la porterebbe, forse, a costruirsi una vita indipendente, si mette nei pasticci e delusa torna a casa a “farsi curare e proteggere” dai “buoni genitori”, nuovamente confermata sul fatto che il mondo è pericoloso e che gli uomini sono inaffidabili.

 

Uno schema esemplificativo

I messaggi genitoriali possono essere incomprensibili per il bambino e a volte sono vissuti come impedimenti generalizzati.
Dagli ultimi esempi riportati risulta che l’aspetto “idealizzato”, espresso in forma di streghe, persecutori o mostri di ogni specie, contiene un insieme di elementi che sono stati condensati in un’immagine “fantasticata”, prodotta dal pensiero magico, intuitivo, concreto di quella parte della personalità che abbiamo definito “Piccolo Professore”. Questi elabora il risultato dell’incontro tra i messaggi genitoriali da una parte e i bisogni e le frustrazioni del bambino, dall’altra. Di conseguenza può essere utile in terapia separare i diversi stimoli che hanno contribuito a formare “l’adattamento complesso” che si manifesta sotto forma di “immagine terrifica”, usando una procedura atta a favorire un “contatto puntuale”.
Mettendo a confronto i messaggi dei genitori “reali” con quelli terrorizzanti della “strega” nell’esempio su riportato, a seguito della separazione e chiarificazione delle parti, è possibile rinvenire l’intervento “creativo” del piccolo Adulto, che ha trasformato la svalutazione iperprotettiva dei genitori, nella “trappola paralizzante” rappresentata dalla “strega” (Fig. 1).

Contemporaneamente si fa strada la consapevolezza dell’Adulto osservante, mentre il Piccolo Professore recede sullo sfondo. Alla visione magica subentra l’esame di realtà. Grazie alla chiarificazione del processo, ora è possibile accedere al bisogno che si nasconde dietro l’immagine terrifica, nonché ai sentimenti che sono stati repressi a favore dell’adattamento passivo. Nel caso specifico il bisogno era di una protezione “calda” e “nutriente” e dietro la maschera della debolezza, la paziente nascondeva “rabbia furibonda”.

 

Gli elementi creativi del contatto

Concludendo, gli aspetti creativi della personalità assumono un ruolo importante sia nella interruzione che nel ripristino del contatto. La insufficiente conoscenza dei meccanismi del pensiero intuitivo, non ci permette di avere una piena comprensione dei processi. “I contenuti ideativi degli stadi precoci sono al di là della nostra possibilità di comprensione” (Kohut, 1976). Sappiamo però che sono estremamente importanti: il contatto è sostenuto dalla creatività. D’altra parte la creatività comporta il rischio e l’invenzione, quindi la possibilità di raggiungere nuove esperienze oltre gli schemi e le strutture prestabilite e per questo ha bisogno di sostegno. Un bambino che sperimenta non può fare a meno del supporto dei genitori. “Il nostro supporto presente dipende dai successi che abbiamo ottenuto nel passato nel portare a buon fine il processo di creare… dai successi passati prendiamo la fiducia a continuare (Latner, 1973). In terapia abbiamo il compito di ricreare quella fiducia. Se il Piccolo Professore ha avuto tanta capacità da difendere e proteggere il bambino nel suo impatto con il mondo, creandogli strutture difensive Anche se limitanti, oggi può usare le stesse capacità per inventare nuove soluzioni adeguate alla realtà del momento. La consapevolezza dell’Adulto lo sostiene.
La sola creatività non è sufficiente, il solo esame di realtà impoverisce l’esperienza. In una visione gestaltica non ci sono prospettive uniche. L’Adulto consapevole, capace di esame di realtà, è il supporto adeguato per il Piccolo Professore, dotato di creatività: i due vanno insieme, sono alleati.
In sintesi mi sembra di poter dire che un buon contatto si avvale di attenzione al “qui ed ora”, di consapevolezza e creatività. Questi elementi, combinati insieme, rendono ricca e produttiva l’esperienza e le permettono di fluire oltre la stasi e le fissazioni provenienti dal passato e oltre i limiti stabiliti in relazione a quanto si immagina che porterà il futuro.