Gestalt: dalla mancanza al bello, al sublime

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Gestalt: dalla mancanza al bello, al sublime

Edito in : Il dolore e la Bellezza. Atti del III Convegno della Società Italiana Psicoterapia Gestalt – Palermo settembre 2011, Franco Angeli s.r.l. – Milano.

 

“La bellezza insieme all’amore, è quanto di più simile alla sua natura profonda l’uomo possa conoscere. La bellezza porta in alto, eleva chi la crea e quelli ai quali si manifesta”.

La Gestalt e gli atti creativi

Un atto creativo, che produca bellezza o anche un sintomo, è il risultato di «processi simbolici profondi della psiche umana »e da essi «può scaturire l’inedito, cioè qualcosa che prima non c’era» (Morelli, 2010). Secondo la terapia della Gestalt il sintomo è frutto di un processo creativo che genera malessere e sofferenza. Creare porta in sé il nuovo, qualcosa che si discosta dai nostri modelli abituali di vita e che comunque ci appartiene e ci rappresenta. Qualsiasi opera d’arte rispecchia il suo autore.L’atto creativo può chiudere una gestalt con puro scopo conservativo e presentarsi sotto forma di un costrutto che si fissa cognitivamente, di un’emozione parassitaria che sostituisce quella naturale o anche di un sintomo organico.

Una delle fonti della creatività può essere «l’esperienza di mancanza» (Pagliarani, 1987) e il dolore lo è: nasce da una carenza che viene dal profondo, è strutturale e si riflette nel qui e ora, in forme varie, consapevoli o no, fino alla negazione. L’atto creativo può emergere da un’elaborazione a livelli più sottili di coscienza, rispetto ai comuni processi difensivi con i quali si rimuovono o scotomizzano dolori e sofferenze. Questo avviene quando entra in gioco un principio superiore, trascendente, dominato dall’istinto e dal desiderio di esserci, vivo, ma con l’anima. La creazione appartiene alle strutture più arcaiche dell’organismo, che seguono l’impulso, l’intuizione e il desiderio di andare oltre per esplorare dimensioni sconosciute.

Il primo momento della creatività è forse quello che in un altro articolo ho definito in termini di precontatto, la fase della sensazione, attiva «prima di distrarsi con pensieri e interpretazioni» (Ferrara, 2011). In questa fase funzionano i sistemi «sensori-motorio» (ibidem), e la sensazione apre alla “possibilità”, orienta e guida verso scelte creative, parte dalla naturalezza corporea e dalla mente vuota da concetti e pregiudizi. Quando si è perso il contatto con la propria spontaneità, ci vuole un atto di coraggio e una fede nel possibile, per scegliere la via della creatività. Occorre saper sopportare l’ansia o anche lo smarrimento aspettando l’ispirazione. Spesso, prima che l’intuizione creativa si manifesti, è il vuoto inquietante che accompagna un’attesa senza riferimenti. Ed è il bambino interiore che infine si orienta verso il potenziale creativo. Va oltre la negazione della possibilità riparatoria e salva l’infante che invece tende a perdersi fino a rifiutare l’esistenza. La creatività si nasconde nei meandri della coscienza, oppressa dagli ordini sul come si deve essere oppure non essere, le forme del nostro esistere che la imprigionano e non danno spazio a ciò che potrebbe avvenire.

L’approccio del Teatro Trasformatore

Durante il Teatro Trasformatore, modello da me elaborato, quando creo un nuovo personaggio per il paziente attore, vivo un tempo di vuoto durante il quale non c’è nulla, nessuna ispirazione, nessuna idea e provo un senso di smarrimento che a volte sfiora l’angoscia. Trovare una nuova soluzione comporta il passaggio per il punto zero dell’indifferenza creativa. E fa paura. In attesa che venga l’idea posso solo stare, aspettando che la creatività si manifesti e suggerisca. Quando infine si profila il personaggio, è quasi sempre una sorpresa. È arrivato Godot, ma permane il dubbio. È quello che serve? Come prova ho solo la mia intuizione. Ma non basta.

Per aprirmi all’atto creativo mi tocca agire, fare e vivere l’esperienza con l’attore. Lo guido ma anche mi coinvolgo. Nel teatro c’è pathos. Nell’atto creativo c’è sofferenza, è implicita nell’uomo, scisso com’è nel dualismo, che tuttavia ha in se l’invito a recuperare la propria natura unitaria. È la vita che produce l’arte e la bellezza che appartengono al mondo delle emozioni e dei sensi. «La bellezza è insopportabile», dice Camus, «ci offre per un minuto lo sguardo dell’eternità che ci piacerebbe estendere per tutto il tempo» (cit. in Morelli, 2010). Vorremmo viverlo per sempre quel piccolo tempo che viene e subito va.

Il rapporto tra sofferenza e bellezza nell’arte

Nel mondo dell’arte e in particolare della musica, un grande esempio in cui sofferenza e bellezza vanno insieme, è Beethoven. Una delle sue opere più significative è la Nona Sinfonia. In essa la musica segue un percorso in più tappe. L’autore passa da momenti dolorosi e angoscianti, all’accettazione e infine all’apoteosi, nella quale il suo viaggio culmina. La sofferenza disperata si trasforma. La musica si eleva e porta alla beatitudine, tocca il divino e la sofferenza diventa la bellezza di un contatto profondo con Dio. I suoni si ampliano, si innalzano e si espandono in una grande vibrazione. “È una resurrezione”. Sofferenza e bellezza hanno trovato nel maestro una perfetta integrazione e insieme hanno incontrato il sublime. Dalla scissione all’unità.

La Nona è una delle ultime opere, quelle che vengono considerate il culmine del suo percorso. È frutto di una vita vissuta con molte difficoltà. Un carattere difficile, problemi economici, solitudine. A 32 anni l’inizio di una grave sordità «lo trascinò […] al limite della disperazione e del suicidio, ma sapeva che non aveva il diritto di lasciare il mondo», perché aveva tanto da dare. La riduzione dell’udito fece crescere in lui la diffidenza e una grande difficoltà nei rapporti umani. Tuttavia «fu sostenuto dal suo senso morale e dalla sua fede incrollabile nel bene» (Einstein, 2011). E poi lo slancio eroico che dà vita alla Nona Sinfonia, quando la sordità è diventata totale e lui sempre più isolato, «ostile, scontroso e misantropo» si apre al divino, e ad una impareggiabile bellezza. Lo sente in sé e lo traduce in un linguaggio che può essere condiviso e non ha bisogno di parole: la musica.

«Seppe esplorare sconosciute profondità dei sentimenti; il dolore e la passione si fanno materia nelle sue mani, ed egli trionfa conferendo loro forma» (ibidem). Beethoven ha di base un carattere evitante, con al fondo la “paura”, dalla quale scappa reagendo con la forza della sfida contro fobica. Ed è proprio la sfida che lo accompagna nella sua grandezza creativa. L’uomo che non si arrende al destino. Ma poi questo coraggio compulsivo di opporsi alle avversità trova nuove corde, diventa una virtù e supera il limite con un atto di resa. Va oltre il titanismo eroico e «le potenze avverse del destino […] e pur nella solitudine inesorabile» dell’esser sordo, ascende «alla contemplazione di supreme verità», fino «ad afferrare il senso del divino» (ibidem). E infine tra gli strumenti appaiono voci umane. È pura bellezza. Ha sfiorato la morte e ha trovato ciò che va oltre la vita.

Al di là del confine si possono trovare nuovi contatti per poter integrare ciò che è scisso. Le due facce di una stessa medaglia che si alternano, come figura e sfondo, possono imparare a conoscersi e a creare una nuova forma, unitaria, o una nuova relazione. Nella tipologia contro fobica la paura è sullo sfondo, ma guida la personalità anche se in maniera inconsapevole. Quando due aspetti del carattere vivono separati, a volte sconosciuti l’uno all’altro o evidentemente in conflitto, cerchiamo l’incontro, favorendo processi di integrazione e assimilazione.

Una seduta di Gestalt in cui questo avviene è bella, e c’è bellezza quando cessano le dicotomie, positivo-negativo, buono-cattivo, e le parti, insieme, creano qualcosa di inedito. Alla stessa maniera la sofferenza e il dolore vengono assorbiti attraverso un atto creativo in un’opera d’arte che le assimila in sé. Nel profondo di noi vi è un conflitto estetico che riguarda gli aspetti umani più intimi, polarità che diventano paralizzanti. Beethoven ha integrato la paura e la contro fobia in un tutto unitario che spinge a livelli più elevati. Ha trovato il coraggio di far emergere fino in fondo la paura, e quello che appariva come sfida arrogante nella quotidianità si è trasformata in un’esperienza del sublime. Il coraggio per il carattere contro fobico diventa una virtù, non il coraggio di rischiare ma il rischio di stare, anche bloccato nell’inerzia. Il paradosso gestaltico dell’accettazione, “stare con quello che è”, attiva processi simili ad una esperienza meditativa. Si raggiunge il silenzio interiore e da lì può nascere ogni cosa. «La creazione artistica è una via per inseguire il limite conflittuale tra suono e silenzio», dice Malher (cit. in Morelli, 2010) che ne parla da musicista. Winnicott (ibidem) ritiene che la creatività sia un fattore costitutivo della natura umana, quindi un fattore primario e autonomo. E continua dicendo che la creatività deriva dall’informe, qualcosa che attende di essere creato.

La mancanza che alimenta la creatività

Nel mio lavoro uso tecniche per stimolare risposte e reazioni spontanee, allo scopo di prevenire giudizi e preconcetti. Il più delle volte il paziente scopre qualcosa di nuovo. La mancanza è anche connessa al nostro sentirci limitati, incompleti e da qui il malessere patologico ed esistenziale. Dalla non accettazione del limite umano derivano il perenne conflitto tra desiderio di perfezione e di totale autonomia o al contrario, una resa alla passività e alla dipendenza, che impediscono l’equilibrio e la coscienza di unitarietà. E poi è proprio a partire dal conflitto che emergono nuovi interessi e l’esperienza creativa. Quando si viene fuori dalla pigrizia passiva, il limite e la mancanza generano l’atto creativo, frutto della naturale tensione a trascendere ciò che è. La carenza e l’insoddisfazione attivano il ciclo di contatto e l’eccitazione, così che la sensazione soggettiva si diriga all’oggetto e lo percepisca (Ferrara, 2011) per potersene riempire. La tensione verso il bello ha un suo potere trasformativo che emerge quando c’è spazio nella mente, direbbe il maestro Zen. Spesso sono il dolore e la disperazione che permettono di superare il limite e la saturazione, quel «tutto pieno che non consente l’accessibilità alla differenza e all’immaginazione di spazi di scoperta» (Morelli, 2010).

Sono frutto di sofferenza e dolore le opere di Modigliani. I suoi ritratti senza occhi o quasi restano nella memoria di chi li guarda sono evocativi di antichi vissuti. Modigliani ritrae molte volte anche Jeanne, la sua donna, senza occhi, e a lei che gli chiede il perché risponde: «Devo conoscere la tua anima per dipingerli». E poi lo farà. Morirà giovane, di meningite tubercolotica.

Nel film di Mick Davis (2004) questo avviene per aggravamento della malattia scatenato dall’alcool e dalle botte di sicari inviatigli per debiti non pagati. Si spegne tra le braccia di Jeanne, la donna che aveva infine deciso di sposare. Anche se le cose non andarono proprio così, il regista creativamente coglie il senso e la forza drammatica della vita di Modì. Le scene finali sono la rappresentazione di una tragedia umana, ove si mescolano dolore, sofferenze di lui e della stessa Jeanne e momenti belli di amore, quell’amore così difficile e sofferto, che ora, nel finale, appare grande. Sembra un melodramma.

Modì muore e poco dopo Jeanne lo segue nella morte. Non può lasciarlo solo, gli dice “aspettami” e va, giù dalla finestra, nel vuoto.  Quell’amore che Modì aveva sempre cercato e mai vissuto a pieno, in un continuo di contatti e fuga, riflette il suo modo di stare al mondo, dominato dalla sofferenza, afflitto da malattie fin dall’infanzia e perennemente insoddisfatto, con un divieto a separarsi, ma anche a creare legami. M. Jacob così lo descrive: «Il suo orgoglio insopportabile, la sua gratitudine torva, la sua arroganza» (cfr. Krystof, 2011). B. Hastings dice di lui: «Un carattere complesso, un porco e una perla […] un aspetto ripugnante, selvatico, avido […] hashish e brandy», e in altre occasioni, «era rasato e aveva un aspetto affascinante», una volta «si tolse il berretto con un movimento aggraziato, arrossì e mi pregò di andare con lui a vedere i suoi lavori» (ibidem). Un carattere tracotante e istrionico, superbo con una estrema fragilità. L’artista è grande ed è smodato. Gli è difficile bilanciare, non ha equilibrio, la virtù che gli permetterebbe di accontentarsi. Ma non entra nella logica della sua esistenza. Rinuncia ad un contatto pieno con l’amore. Avere una vita insieme a Jeanne sarebbe normale, ma non la sposerà, pur avendo le carte pronte per farlo.

Il suo Copione, in linea con il percorso di vita, è distruttivo anche nel finale. Ma è un artista e resta di lui un’opera immortale. Nell’arte si completa, e nei suoi lavori questo è chiaro. Jacob ci dice. «In Dedo tutto era orientato alla bellezza nell’arte», tutto di lui «altro non era se non l’espressione dell’aspirazione a una purezza cristallina… ». La sua purezza «è leggibile come la grande arte dell’omissione… i suoi ritratti sono più descrivibili se si elenca quanto essi non mostrano» (ibidem). «Hanno una linearità perfetta. I dipinti dei giovani corpi di donna nudi, meditativamente chiusi in sé, raggiungono una stilizzazione quasi soprannaturale» (Krystof, 2011). Modì stesso lascia scritto in un taccuino di schizzi: «Ciò che io cerco non è il reale e neanche l’irreale, ma l’inconscio, il mistero dell’istintivo della razza››. Freud e Nietzsche sono presenti. Jeanne fu una grande ispiratrice. La bellezza che ci trasmette Modì di lei è quella di una donna «dolce, timida, tenera e taciturna… persa nei suoi pensieri, lontana dalla realtà e piena di grazia». Negli ultimi quadri, lui e la sua modella sono una cosa sola (Krystof, 2011). Sul filo dell’arte insieme si completano.

Quando si capisce che la sofferenza è frutto dell’ignoranza che ha l’uomo circa la sua natura, allora l’attenzione è rivolta alla ricerca della propria essenza, uno stato al di là di dualismo e conflitto. La bellezza, insieme all’amore, è quanto di più simile alla sua natura profonda l’uomo possa conoscere. La bellezza porta in alto, eleva chi la crea e quelli ai quali si manifesta. Si produce relazione, entrano in contatto l’artista e i significati inediti che propone a chi li riceve, spesso con opere che stupiscono e amplificano il senso del possibile. Gallese ritiene che «la relazione che si instaura attraverso l’esperienza estetica è naturalmente fondata e ciò che emerge dalle relazioni cambia il comportamento, agendo anche sul sistema nervoso» (cit. in Morelli, 2010). «L’arte cura», dice Jodorowsky, e la scienza lo prova. Arte è qualsiasi esperienza capace di suscitare stupore, sublime meraviglia, accesso a parti di sé che non sarebbero mai state riconosciute.

La trasformazione gestaltica

Una seduta gestaltica ha questo potenziale.

La grande invenzione di F. Perls che ha portato con la Gestalt l’esperienza viva come centro dell’azione terapeutica, permette di seguire il paziente guidandolo nella ricerca di espressioni vere, che corrispondano al suo effettivo sentire, perché il dolore e la sofferenza possano esplodere nella loro pienezza. E poi verrà la trasformazione. In un dialogo gestaltico la bellezza si esprime in molti modi e ogni volta che si raggiunge il culmine di un’esperienza pienamente vissuta. La bellezza esprime amore o dichiara la sua mancanza e lo reclama. È ovvio che non bastano tecnica e teoria in un terapeuta della Gestalt. «L’estetica è la madre dell’etica» disse J. Brodsky, ricevendo il Nobel per la letteratura. «Chi non ne è convinto si ricordi di quando si è innamorato».

Un ultimo esempio lo prendo dalla letteratura, Cecità di José Saramago (2010). Per l’autore la cecità è una metafora per dire “ignoranza di sé”. Il distacco dalla propria coscienza che si abbrutisce, quando tutto si uniforma e la vita diventa solo sopravvivenza, per conservarsi, ma non per vivere davvero. La cecità è pigrizia dello spirito. Mi ricorda il sogno di una paziente in cui si vede come un vegetale in un acquario.

È un po’ questo quello che intendo. Nell’opera di Saramago è presente anche l’altro polo, Mister Hyde. Non solo ciechi passivi, ma anche i ciechi sfruttatori, ladri e inumani. Appare il diavolo e il terribile. Morte e stupore per l’impensabile che accade. La cecità contagia e gradualmente l’intera popolazione diventa cieca. La gente vive tra i propri escrementi e tra quelli degli altri. La merda che tutto circonda. Si è chiusi in ambienti che sono prigioni, governa la paura, il sopruso e la porcheria per l’intera popolazione. Si caca dappertutto. Saramago è spietato nelle sue descrizioni, si è persa ogni umanità, anche la sofferenza è diventata abitudine priva di intensità. Unica tra tutti, una donna che vede.

È bella e soffre. È generosa, si dona agli altri e infine li guida fuori dai lager, verso la salvezza. Saramago trae da una situazione di orrore un’opera d’arte, grazie alla sua capacità di cogliere “l’inedito” e offrirlo alla comprensione del lettore che facilmente può vibrare di stupore incontrando l’impensabile e sentire smarrimento e rifiuto, per lo sconosciuto che gli arriva. Di certo sperimenta una qualche sintonia con quanto i suoi neuroni riflettono dai meandri della propria coscienza. È bella, sul finale, l’immagine della donna che vede. Si aggira per le vie deserte della città alla ricerca di cibo per quel mondo di ciechi ora fuori dai lager e affamati. Ha il seno scoperto ed è contenta di mostrare la sua femminilità. Di fatto nessuno la vede, ma la sua anima sì.